Archivio di novembre 2008

IN LATINO
Equus alexandri regis et capite et nomine bucephalas fuit. emptum chares scripsit talentis tredecim et regi philippo donatum esse. super hoc equo dignum memoria visum est, quod, ubi ornatus erat armatusque ad proelium, haud umquam inscendi sese ab alio nisi ab rege passus sit. id etiam de isto equo memoratum est, quod, cum insidens in eo alexander bello indico et fecinora faces fortia, in hostium cuneum non satis sibi providens inmisisset, coniectisque undique in alexandrum telis in cervice atque in latere equus perfossus esset, moribundus tamen ac prope iam exanguis e mediis hostibus regem vivacissimo cursu retulit atque, ubi eum extra tela extulerat, ilico concilit et domini iam superstitis securus, quasi cum sensus humani solacio animam expiravit. tum rex alexander, parta eius belli victoria, oppidum in iinsidem locis condidit idque ob equi honores bocephalon appellavit


TRADUZIONE

Il destriero del re Alessandro era chiamato, a motivo dell(a forma del) suo cranio [capite], “Bucefalo” ["dalla testa di bue"]. Chares scrisse ch’era stato acquistato per una somma di 13 talenti, e che al re Filippo era stato dato in dono. Su questo cavallo è parso opportuno ricordare [dignum memoria, degno di memoria] il seguente aneddoto [lett. quod, questo fatto, ovvero che:]: quand’era equipaggiato [ornatus… armatusque] per la battaglia, non permetteva d’essere montato da alcuno, ad eccezione del re (stesso).
Altro aneddoto, egualmente degno di memoria [id etiam… memoratum est], che riguarda questo cavallo: durante la guerra contro l’india, Alessandro – che gli era in sella [lett. insidens in eo, montandolo, che/mentre lo montava] – stava facendo strage (di nemici) [facens fecinora fortia], quando – inavvertitamente [non satis sibi providens] – si era ritrovato nel bel mezzo della schiera nemica [immisisset… in cuneum hostium]. Fatto Alessandro bersaglio di una gragnola di dardi [rendo così l'abl. ass. coniectisque telis (scoccati dardi) undique (da ogni parte) in alexandrum (contro Alessandro)], il cavallo ricevette ferite mortali [perfossus esset] all’altezza del cranio e del fianco: pur in fin di vita, per l’enorme quantità di sangue perso [prope iam exanguis, praticamente esangue], tirò fuori [rettulit] il re – a spron battuto [vivacissimo cursu] – dal mezzo delle schiere nemiche [e mediis hostibus] – e dopo averlo sottratto al fuoco (nemico) [ubi eum extra tela extulerat] – stramazzò al suolo, e, tranquillo ché il re era oramai in salvo, spirò, come sollevato [lett. quasi con] da un senso di umana consolazione.
Al che, il re Alessandro – uscito alla fine vincitore da quella guerra – fondò una città proprio in quel luogo [in iinsidem locis] (in cui era spirato il cavallo) e la chiamò “Bucefalo”, in onore del (suo) destriero.

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IN LATINO
Postquam Anphitrion discessit ut Oecheliam expugnaret, Iuppiter, speciem illius viri sumens, domum Alcmenae accessit, ut cum ea iaceret. Mulier, aestimans lovem coniugem suum esse, eum thalamis recepit et credidit deo, cum ille res in Oechalie gestas narravit. Iuppiter autem, ut diu cum ea concumberet, noctem illam produxit usque ad proximam. Postero die, cum nuntiatum est ei coniugem victorem revertisse, Alcmena minime curavit, quod iam putabat se coniugem suum vidisse. Cum autem Amphitryon in regiam intravit et eam neglegentius securam vidit, obstupuit quod uxor se advenientem non exceperat; cui Almena respondit:”Iam pridem venisti et mecum concubuisti et mihi narrasti quae in Oechalia gesseras”. Quoniam mulier signa omnia dicebat, Amohitryon sensit numen fuisse pro se, quod cum uxore sua concubuerat. Alcmena, ab love compressa, Herculem peperit.

IN ITALIANO
Dopo che Anfitrione se ne andò per espugnare Ecalia, Giove assumendo le sembianze di quell’uomo entrò in casa di Alcmena, per giacere con lei. La moglie pensando che Giove fosse suo marito, lo accolse nel talamo. Essendo questo giunto al talamo e raccontando quelle cose che aveva compiuto ad Ecalia, ella, credendo che fosse il marito, si unì a lui. E Giove, per giacere a lungo con lei, prolungò quella notte fino alla prossima. Il giorno dopo, essendole stato annunciato l’arrivo del coniuge vincitore, non si preoccupò minimamente, perchè riteneva di aver già visto suo marito. Essendo Anfitrione entrato nella reggia e vedendola alquanto negligentemente tranquilla, cominciò a stupirsi e a chiedersi perchè non lo avesse accolto al suo arrivo. Alla qual cosa Alcmena risponde:”Già tempo fa sei venuto e ti sei unito a me e mi hai raccontato le cose che hai compiuto in Ecalia”. Poiché questa gli esponeva tutte le prove, Anfitrione capì che un dio si era spacciato per lui, poiché aveva giaciuto con sua moglie Alcmena, violentata da Giove, partorì Ercole.

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IN LATINO
Mancante

TRADUZIONE
Teti quando seppe che suo figlio Achille, che aveva avuto da Peleo, fosse andato a combattere a Troia, là sarebbe morto, lo mandò nell’ isola di Sciro presso il re Licomede . Egli mutato nome, lo serviva con vesti femminili tra le figlie vergini. Ma i greci quando vennero a sapere che era nascosto là mandarono presso il re Licomede degli ambasciatori perchè gli chiedessero di mandarlo in aiuto ai greci. Il re, poichè disse che non era presso di lui, diede loro il permesso di cercarlo nella reggia. Poichè non riuscivano a capire chi fosse Achille, Ulisse mise nell’ atrio della reggia dei doni femminili fra i quali una lancia e uno scudo, e subito ordinò che un trombettiere suonasse e che fosse fatto clamore e strepito di armi. Achille chredendo che ci fossero nemici, strappò la veste femminile e afferrò lo scudo e la lancia. Da questo fu riconosciuto e assicurò i suoi servigi e i soldati mirmidoni ai Greci.

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IN LATINO
Achilles, cum mortem Patrocli cognoscit, admodum maestus diu amicum luget. Postea iram in Hectorem, amici interfectorem, et in eius comites vertit: itaque cupidus caedis in pugnam descendere statuit. Troiani, cum vident hostem horrendum aspectu , magno terrore capiuntur, in urbem confugiunt et portas claudunt. Hector solus extra muros manet et Achillem exspectat. Pater eius, Priamus, Troianorum rex, ex altis moenibus filium videt et magna voce dicit: <>. Sed Hector patris preces non audit et dicit: << Cum strenuo viro Graeco pugnare volo, virtute mea eum vincere et patriae nostrae salutem dare >>. Sed cum Achilles accedit, etiam Hectoris animus magno terrore capitur et Troianus dux fugit currens circa muros urbis: Achilles post tergum instat et contumeliosis verbis eum increpat. Tandem Hector consistit, se vertit et clamat: <>.

TRADUZIONE
Achille, quando conosce la morte di Patroclo, piange molto triste l’amico a lungo. Dopo volge l’ira ad Ettore, uccisore dell’amico, e ai suoi compagni: e così desideroso di strage decide di scendere in guerra. I Troiani, quando vedono il nemico nell’orrendo aspetto, vengono presi da un grande terrore, si rifugiano in città e chiudono le porte. Solo Ettore rimane fuori dalle mura e aspetta Achille. Suo padre, Priamo, re dei Troiani, vede il figlio dalle alte mura e dice a grande voce:«Entra in città, Ettore; la madre, la cara moglie, il piccolo figlio e tutti i cittadini ti invocano; se vieni ucciso da Achille, chi può difendere la tua famiglia e la patria?». Ma Ettore non ascolta le preghiere del padre e dice: «Voglio combattere con il valoroso uomo Greco, vincerlo con la mia virtù e dare alla nostra patria la salvezza». Ma quando Achille si avvicina, anche l’animo di Ettore è preso da un grande terrore e il conduttore Troiano fugge correndo attorno le mura della città: Achille incalza alle spalle e lo rimprovera con parole oltraggiose. Infine Ettore si ferma, si volge e grida:«Achille, non voglio più fuggire: il Fato mi induce alla battaglia.

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LATINO

cum contio advocata esset, C. Iunius, unus ex tribunis, Tempanium equitatem vocari iussit coram que ei “Sexte Tempani” inquit “quaero ex te putesne Gaium Sempronium consulem aut in tempore proelium commisisse, aut firmasse aubsidiis aciem aut ullum boni consuli perfecisse officium; et tune ipse, cum legiones Romanae victae essent, tuo consilio equitem ad pedes deduxeris restituerisque pugnam; deinde mun tibi atque equitibus aut consul ipse auxilio venerit aut miserit praesidium.
Haec pro virtute tua fideque, qua una hoc bello res publica stetit; dicere debes hodie; denique ubi C. Sempronius, ubi legiones nostrae sint; desertus sis an deserueris consulem exercitumque, victi denique simus an vincerimus”.
da Livio

ITALIANO

essendo stata consultata l’assemblea, C. Iunio, uno dei tribuni della plebe, ordinò che il cavaliere Tempanio fosse chiamato di fronte a lui e disse:”o Sesto Tempanio, ti chiedo se credi che il console Gaio Sempronio abbia iniziato in tempo il combattimento, se abbia rafforzato con sussidi la schiera o se abbia portato a termine ogni incarico da buon console; e tu stesso, essendo state vinte le legioni romane di tua iniziativa hai condotto a piedi la cavalleria e hai restituito la battaglia; poi ti chiedo se il console stesso sia venuto in soccorso a te e ai cavalieri o se abbia mandato presidi.
Queste cose devi dire oggi, in nome della tua virtù e fiducia, alla quale soltanto lo stato deve la sua salvezza, infine dov’è C. Sempronio, dove sono le nostre legioni, sei abbandonato e abbandonerai il console e l’esercito, e infine saremo vinti o vincitori?

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IN LATINO
Ni virtus fidesque vostra spectata mihi foret, nequiquam opportuna res cecidisset; spes magna, dominatio in manibus frustra fuissent, neque ego per ignaviam aut vana ingenia incerta pro certis captarem. Sed quia multis et magnis tempestatibus vos cognovi fortis fidosque mihi, eo animus ausus est maxumum atque pulcherrumum facinus incipere, simul quia vobis eadem quae mihi bona malaque esse intellexi; nam idem velle atque idem nolle, ea demum firma amicitia est. Sed ego quae mente agitavi, omnes iam antea divorsi audistis. Ceterum mihi in dies magis animus adcenditur, quom considero, quae condicio vitae futura sit, nisi nosmet ipsi vindicamus in libertatem. Nam postquam res publica in paucorum potentium ius atque dicionem concessit, semper illis reges tetrarchae vectigales esse, populi nationes stipendia pendere; ceteri omnes, strenui boni, nobiles atque ignobiles, volgus fuimus sine gratia, sine auctoritate, iis obnoxii, quibus, si res publica valeret, formidini essemus. Itaque omnis gratia potentia honos divitiae apud illos sunt aut ubi illi volunt; nobis reliquere pericula repulsas iudicia egestatem. Quae quo usque tandem patiemini, o fortissumi viri? Nonne emori per virtutem praestat quam vitam miseram atque inhonestam, ubi alienae superbiae ludibrio fueris, per dedecus amittere?

TRADUZIONE
Se il vostro valore e la vostra lealtà non fossero per me certi, invano si sarebbe presentata (questa) circostanza favorevole; la grande speranza del potere invano si sarebbe trovata nelle (nostre) mani, né io cercherei l’incerto al posto del certo con gente ignava o leggera. Ma poiché vi ho conosciuti forti e fedeli in molte circostanze importanti, (proprio) per questo il mio animo ha osato intraprendere un’impresa grandissima e bellissima, (e) nello stesso tempo perché ho capito che per voi i beni e i mali sono gli stessi che per me; infatti volere e non volere le stesse cose, questa davvero è salda amicizia. Ma i piani che io ho concepito nella mia mente, (voi) tutti ad uno ad uno (li) avete sentiti già prima. Del resto l’animo mi si accende ogni giorno di più quando considero quale sarà la (nostra) condizione di vita se non ci liberiamo da soli dalla schiavitù. Infatti, dopo che lo Stato è passato sotto l’autorità e il controllo di pochi potenti, re e principi sono sempre loro tributari, popoli e nazioni pagano (loro) un’imposta; (noi) altri tutti, valorosi (e) onesti, nobili e non nobili, (da allora) siamo stati un volgo senza credito, senza autorità, sottoposti a gente a cui (ora) faremmo paura, se lo Stato (res publica = cosa pubblica. Republica) avesse ancora il (suo) valore. Così prestigio, potere, cariche pubbliche e ricchezze, sono tutti nelle loro mani o dove quelli vogliono; a noi hanno lasciato pericoli, insuccessi politici, processi (e) povertà. Fino a quando, insomma, miei prodi, sopporterete questi (soprusi)? Non è forse meglio morire con valore che perdere con infamia una vita misera e priva di onori, nella quale si è stati (oggetto) di scherno per la superbia altrui?

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IN LATINO
Facturusne operae pretium sim si a primordio urbis res populi Romani
perscripserim nec satis scio nec, si sciam, dicere ausim, quippe qui cum veterem tum volgatam esse rem videam, dum novi semper scriptores aut in rebus certius aliquid allaturos se aut scribendi arte rudem vetustatem superaturos credunt. Utcumque erit, iuvabit tamen rerum gestarum memoriae principis terrarum populi pro virili parte et ipsum consuluisse; et si in tanta scriptorum turba mea fama in obscuro sit, nobilitate ac magnitudine eorum me qui nomini officient meo consoler. Res est praeterea et immensi operis, ut quae supra septingentesimum annum repetatur et quae ab exiguis profecta initiis eo creverit ut iam magnitudine laboret sua; et legentium plerisque haud dubito quin primae origines proximaque originibus minus praebitura voluptatis sint, festinantibus ad haec nova quibus iam pridem praevalentis populi vires se ipsae conficiunt: ego contra hoc quoque laboris praemium petam, ut me a conspectu malorum quae nostra tot per annos vidit aetas, tantisper certe dum prisca [tota] illa mente repeto, auertam, omnis expers curae quae scribentis animum, etsi non flectere a uero, sollicitum tamen efficere posset.
Quae ante conditam condendamve urbem poeticis magis decora fabulis quam incorruptis rerum gestarum monumentis traduntur, ea nec adfirmare nec refellere in animo est. Datur haec venia antiquitati ut miscendo humana divinis primordia urbium augustiora faciat; et si cui populo licere oportet consecrare origines suas et ad deos referre auctores, ea belli gloria est populo Romano ut cum suum conditorisque sui parentem Martem potissimum ferat, tam et hoc gentes humanae patiantur aequo animo quam imperium patiuntur. Sed haec et his similia utcumque animaduersa aut existimata erunt haud in magno equidem ponam discrimine: ad illa mihi pro se quisque acriter intendat animum, quae vita, qui mores fuerint, per quos uiros quibusque artibus domi militiaeque et partum et auctum imperium sit; labente deinde paulatim disciplina velut desidentes primo mores sequatur animo, deinde ut magis magisque lapsi sint, tum ire coeperint praecipites, donec ad haec tempora quibus nec uitia nostra nec remedia pati possumus perventum est. Hoc illud est praecipue in cognitione rerum salubre ac fr.pngerum, omnis te exempli documenta in inlustri posita monumento intueri; inde tibi tuaeque rei publicae quod imitere capias, inde foedum inceptu foedum exitu quod vites. Ceterum aut me amor negotii suscepti fallit, aut nulla unquam res publica nec maior nec sanctior nec bonis exemplis ditior fuit, nec in quam [civitatem] tam serae avaritia luxuriaque immigraverint, nec ubi tantus ac tam diu paupertati ac parsimoniae honos fuerit. Adeo quanto rerum minus, tanto minus cupiditatis erat: nuper diuitiae auaritiam et abundantes voluptates desiderium per luxum atque libidinem pereundi perdendique omnia invexere. Sed querellae, ne tum quidem gratae futurae cum forsitan necessariae erunt, ab initio certe tantae ordiendae rei absint: cum bonis potius ominibus votisque et precationibus deorum dearumque, si, ut poetis, nobis quoque mos esset, libentius inciperemus, ut orsis tantum operis successus prosperos darent.


TRADUZIONE

Non so se valga davvero la pena raccontare fin dai primordi l’insieme della storia romana. Se anche lo sapessi, non oserei dirlo, perché mi rendo conto che si tratta di un’operazione tanto antica quanto praticata, mentre gli storici moderni o credono di poter portare qualche contributo più documentato nella narrazione dei fatti, o di poter superare la rozzezza degli antichi nel campo dello stile. Comunque vada, sarà pur sempre degno di gratitudine il fatto che io abbia provveduto, nei limiti delle mie possibilità, a perpetuare la memoria delle gesta compiute dal più grande popolo della terra. E se in mezzo a questa pletora di storici il mio nome rimarrà nell’ombra, troverò di che consolarmi nella nobiltà e nella grandezza di quanti avranno offuscato la mia fama. E poi si tratta di un’opera sterminata, perché deve ripercorrere più di settecento anni di storia che, pur prendendo le mosse da umili origini, è cresciuta a tal punto da sentirsi minacciata dalla sua stessa mole. Inoltre sono sicuro che la maggior parte dei lettori si annoierà di fronte all’esposizione delle prime origini e dei fatti immediatamente successivi, mentre sarà impaziente di arrivare a quegli avvenimenti più recenti nei quali si esauriscono da sé le forze di un popolo già da tempo in auge. Io, invece, cercherò di ottenere anche questa ricompensa al mio lavoro, cioè di distogliere lo sguardo da quegli spettacoli funesti di cui la nostra età ha continuato a essere testimone per così tanti anni, finché sarò impegnato, col pieno delle mie forze mentali, a ripercorrere quelle antiche vicende, libero da ogni forma di preoccupazione che, pur non potendo distogliere lo storico dal vero, tuttavia rischierebbe di turbarne la disposizione d’animo. Le leggende precedenti la fondazione di Roma o il progetto della sua fondazione, dato che si addicono più ai racconti fantasiosi dei poeti che alla documentazione rigorosa degli storici, non è mia intenzione né confermarle né smentirle. Sia concessa agli antichi la facoltà di nobilitare l’origine delle città mescolando l’umano col divino; e se si deve concedere a un popolo di consacrare le proprie origini e di ricondurle a un intervento degli dèi, questo vanto militare lo merita il popolo romano perché, riconnettendo a Marte più che a ogni altro la propria nascita e quella del proprio capostipite, il genere umano accetta un simile vezzo con lo stesso buon viso con cui ne sopporta l’autorità. Ma di questi aspetti e di altri della medesima natura, comunque saranno giudicati, da parte mia non ne terrò affatto conto: ciascuno, questo mi preme, li analizzi con grande attenzione e si soffermi su che tipo di vita e che abitudini ci siano state, grazie all’abilità di quali uomini, in pace e in guerra, l’impero sia stato creato e accresciuto; quindi consideri come, per un progressivo rilassamento del senso di disciplina, i costumi abbiano in un primo tempo seguito l’infiacchirsi del pensiero, poi siano decaduti sempre di più, e in séguito abbiano cominciato a franare a precipizio fino ad arrivare ai giorni nostri, nei quali tanto il vizio quanto i suoi rimedi sono intollerabili. Ciò che risulta più di ogni altra cosa utile e fecondo nello studio della storia è questo: avere sotto gli occhi esempi istruttivi d’ogni tipo contenuti nelle illustri memorie. Di lì si dovrà trarre quel che merita di essere imitato per il proprio bene e per quello dello Stato, nonché imparare a evitare ciò che è infamante tanto come progetto quanto come risultato. E poi, o mi inganna la passione per il lavoro intrapreso, o non è mai esistito uno Stato più grande, più puro, più ricco di nobili esempi, e neppure mai una civiltà nella quale siano penetrate così tardi l’avidità e la lussuria e dove la povertà e la parsimonia siano state onorate così tanto e per così tanto tempo. Perciò, meno cose c’erano, meno si desiderava: solo di recente le ricchezze hanno introotto l’avidità, e l’abbondanza di piaceri a portata di mano ha a sua volta fatto conoscere il desiderio di perdersi e di lasciare che ogni cosa vada in rovina in un trionfo di sregolata dissolutezza. Ma, all’inizio di un’impresa di queste proporzioni, siano messe al bando le recriminazioni, destinate a non risultare gradite nemmeno quando saranno necessarie: se anche noi storici, come i poeti, avessimo l’abitudine di incominciare con buoni auspici, voti e preghiere rivolte a tutte le divinità, preferirei un attacco del genere, pregandoli di concedere grande successo alla mia impresa.

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