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Paragrafo 2

O tempora, o mores! Senatus haec intellegit, consul videt; hic tamen vivit. Vivit? immo vero etiam in senatum venit, fit publici consilii particeps, notat et designat oculis ad caedem unum quemque nostrum. Nos autem fortes viri satis facere rei publicae /// videmur, /// si istius furorem ac tela vitemus. Ad mortem te, Catilina, duci iussu consulis /// iam pridem oportebat, in te conferri pestem, /// quam tu in nos omnes iam diu machinaris.

principali
infinitive
ipotetica della possibilità
relativa

/// –> separazione tra frasi
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LATINO

cum contio advocata esset, C. Iunius, unus ex tribunis, Tempanium equitatem vocari iussit coram que ei “Sexte Tempani” inquit “quaero ex te putesne Gaium Sempronium consulem aut in tempore proelium commisisse, aut firmasse aubsidiis aciem aut ullum boni consuli perfecisse officium; et tune ipse, cum legiones Romanae victae essent, tuo consilio equitem ad pedes deduxeris restituerisque pugnam; deinde mun tibi atque equitibus aut consul ipse auxilio venerit aut miserit praesidium.
Haec pro virtute tua fideque, qua una hoc bello res publica stetit; dicere debes hodie; denique ubi C. Sempronius, ubi legiones nostrae sint; desertus sis an deserueris consulem exercitumque, victi denique simus an vincerimus”.
da Livio

ITALIANO

essendo stata consultata l’assemblea, C. Iunio, uno dei tribuni della plebe, ordinò che il cavaliere Tempanio fosse chiamato di fronte a lui e disse:”o Sesto Tempanio, ti chiedo se credi che il console Gaio Sempronio abbia iniziato in tempo il combattimento, se abbia rafforzato con sussidi la schiera o se abbia portato a termine ogni incarico da buon console; e tu stesso, essendo state vinte le legioni romane di tua iniziativa hai condotto a piedi la cavalleria e hai restituito la battaglia; poi ti chiedo se il console stesso sia venuto in soccorso a te e ai cavalieri o se abbia mandato presidi.
Queste cose devi dire oggi, in nome della tua virtù e fiducia, alla quale soltanto lo stato deve la sua salvezza, infine dov’è C. Sempronio, dove sono le nostre legioni, sei abbandonato e abbandonerai il console e l’esercito, e infine saremo vinti o vincitori?

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IN LATINO
Facturusne operae pretium sim si a primordio urbis res populi Romani
perscripserim nec satis scio nec, si sciam, dicere ausim, quippe qui cum veterem tum volgatam esse rem videam, dum novi semper scriptores aut in rebus certius aliquid allaturos se aut scribendi arte rudem vetustatem superaturos credunt. Utcumque erit, iuvabit tamen rerum gestarum memoriae principis terrarum populi pro virili parte et ipsum consuluisse; et si in tanta scriptorum turba mea fama in obscuro sit, nobilitate ac magnitudine eorum me qui nomini officient meo consoler. Res est praeterea et immensi operis, ut quae supra septingentesimum annum repetatur et quae ab exiguis profecta initiis eo creverit ut iam magnitudine laboret sua; et legentium plerisque haud dubito quin primae origines proximaque originibus minus praebitura voluptatis sint, festinantibus ad haec nova quibus iam pridem praevalentis populi vires se ipsae conficiunt: ego contra hoc quoque laboris praemium petam, ut me a conspectu malorum quae nostra tot per annos vidit aetas, tantisper certe dum prisca [tota] illa mente repeto, auertam, omnis expers curae quae scribentis animum, etsi non flectere a uero, sollicitum tamen efficere posset.
Quae ante conditam condendamve urbem poeticis magis decora fabulis quam incorruptis rerum gestarum monumentis traduntur, ea nec adfirmare nec refellere in animo est. Datur haec venia antiquitati ut miscendo humana divinis primordia urbium augustiora faciat; et si cui populo licere oportet consecrare origines suas et ad deos referre auctores, ea belli gloria est populo Romano ut cum suum conditorisque sui parentem Martem potissimum ferat, tam et hoc gentes humanae patiantur aequo animo quam imperium patiuntur. Sed haec et his similia utcumque animaduersa aut existimata erunt haud in magno equidem ponam discrimine: ad illa mihi pro se quisque acriter intendat animum, quae vita, qui mores fuerint, per quos uiros quibusque artibus domi militiaeque et partum et auctum imperium sit; labente deinde paulatim disciplina velut desidentes primo mores sequatur animo, deinde ut magis magisque lapsi sint, tum ire coeperint praecipites, donec ad haec tempora quibus nec uitia nostra nec remedia pati possumus perventum est. Hoc illud est praecipue in cognitione rerum salubre ac fr.pngerum, omnis te exempli documenta in inlustri posita monumento intueri; inde tibi tuaeque rei publicae quod imitere capias, inde foedum inceptu foedum exitu quod vites. Ceterum aut me amor negotii suscepti fallit, aut nulla unquam res publica nec maior nec sanctior nec bonis exemplis ditior fuit, nec in quam [civitatem] tam serae avaritia luxuriaque immigraverint, nec ubi tantus ac tam diu paupertati ac parsimoniae honos fuerit. Adeo quanto rerum minus, tanto minus cupiditatis erat: nuper diuitiae auaritiam et abundantes voluptates desiderium per luxum atque libidinem pereundi perdendique omnia invexere. Sed querellae, ne tum quidem gratae futurae cum forsitan necessariae erunt, ab initio certe tantae ordiendae rei absint: cum bonis potius ominibus votisque et precationibus deorum dearumque, si, ut poetis, nobis quoque mos esset, libentius inciperemus, ut orsis tantum operis successus prosperos darent.


TRADUZIONE

Non so se valga davvero la pena raccontare fin dai primordi l’insieme della storia romana. Se anche lo sapessi, non oserei dirlo, perché mi rendo conto che si tratta di un’operazione tanto antica quanto praticata, mentre gli storici moderni o credono di poter portare qualche contributo più documentato nella narrazione dei fatti, o di poter superare la rozzezza degli antichi nel campo dello stile. Comunque vada, sarà pur sempre degno di gratitudine il fatto che io abbia provveduto, nei limiti delle mie possibilità, a perpetuare la memoria delle gesta compiute dal più grande popolo della terra. E se in mezzo a questa pletora di storici il mio nome rimarrà nell’ombra, troverò di che consolarmi nella nobiltà e nella grandezza di quanti avranno offuscato la mia fama. E poi si tratta di un’opera sterminata, perché deve ripercorrere più di settecento anni di storia che, pur prendendo le mosse da umili origini, è cresciuta a tal punto da sentirsi minacciata dalla sua stessa mole. Inoltre sono sicuro che la maggior parte dei lettori si annoierà di fronte all’esposizione delle prime origini e dei fatti immediatamente successivi, mentre sarà impaziente di arrivare a quegli avvenimenti più recenti nei quali si esauriscono da sé le forze di un popolo già da tempo in auge. Io, invece, cercherò di ottenere anche questa ricompensa al mio lavoro, cioè di distogliere lo sguardo da quegli spettacoli funesti di cui la nostra età ha continuato a essere testimone per così tanti anni, finché sarò impegnato, col pieno delle mie forze mentali, a ripercorrere quelle antiche vicende, libero da ogni forma di preoccupazione che, pur non potendo distogliere lo storico dal vero, tuttavia rischierebbe di turbarne la disposizione d’animo. Le leggende precedenti la fondazione di Roma o il progetto della sua fondazione, dato che si addicono più ai racconti fantasiosi dei poeti che alla documentazione rigorosa degli storici, non è mia intenzione né confermarle né smentirle. Sia concessa agli antichi la facoltà di nobilitare l’origine delle città mescolando l’umano col divino; e se si deve concedere a un popolo di consacrare le proprie origini e di ricondurle a un intervento degli dèi, questo vanto militare lo merita il popolo romano perché, riconnettendo a Marte più che a ogni altro la propria nascita e quella del proprio capostipite, il genere umano accetta un simile vezzo con lo stesso buon viso con cui ne sopporta l’autorità. Ma di questi aspetti e di altri della medesima natura, comunque saranno giudicati, da parte mia non ne terrò affatto conto: ciascuno, questo mi preme, li analizzi con grande attenzione e si soffermi su che tipo di vita e che abitudini ci siano state, grazie all’abilità di quali uomini, in pace e in guerra, l’impero sia stato creato e accresciuto; quindi consideri come, per un progressivo rilassamento del senso di disciplina, i costumi abbiano in un primo tempo seguito l’infiacchirsi del pensiero, poi siano decaduti sempre di più, e in séguito abbiano cominciato a franare a precipizio fino ad arrivare ai giorni nostri, nei quali tanto il vizio quanto i suoi rimedi sono intollerabili. Ciò che risulta più di ogni altra cosa utile e fecondo nello studio della storia è questo: avere sotto gli occhi esempi istruttivi d’ogni tipo contenuti nelle illustri memorie. Di lì si dovrà trarre quel che merita di essere imitato per il proprio bene e per quello dello Stato, nonché imparare a evitare ciò che è infamante tanto come progetto quanto come risultato. E poi, o mi inganna la passione per il lavoro intrapreso, o non è mai esistito uno Stato più grande, più puro, più ricco di nobili esempi, e neppure mai una civiltà nella quale siano penetrate così tardi l’avidità e la lussuria e dove la povertà e la parsimonia siano state onorate così tanto e per così tanto tempo. Perciò, meno cose c’erano, meno si desiderava: solo di recente le ricchezze hanno introotto l’avidità, e l’abbondanza di piaceri a portata di mano ha a sua volta fatto conoscere il desiderio di perdersi e di lasciare che ogni cosa vada in rovina in un trionfo di sregolata dissolutezza. Ma, all’inizio di un’impresa di queste proporzioni, siano messe al bando le recriminazioni, destinate a non risultare gradite nemmeno quando saranno necessarie: se anche noi storici, come i poeti, avessimo l’abitudine di incominciare con buoni auspici, voti e preghiere rivolte a tutte le divinità, preferirei un attacco del genere, pregandoli di concedere grande successo alla mia impresa.

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IN LATINO
Romae, ad primum nuntium cladis eius, cum ingenti terrore ac tumultu concursus in Forum populi est factus; matronae, vagae per vias, quae repens clades adlata – quaeve fortuna exercitus esset obvios percunctantur. Et, cum frequentis contionis modo turba in comitium et Curiam versa magistratus vocaret, tandem haud multò ante solis occasum M. Pomponius praetor “ ptzgna ”, inquit, “ magna vieti sumus ”; et, quamquam nihil eertius ex eo auditum est, tamen, alius ab alio impleti rumoribus, domos referunt consulem cum magna parte copiarum caesum, superesse paucos aut fuga passim per Etruriam sparsos aut captos ab hoste. Quot casus exercitus vieti fuerant, tot in curas distracti animi eorum erant quorum propinqui sub C. Flaminio consule meruerant, ignorantium quae cuiusque suorum fortuna esset; nec quisquam satis certum habet quid aut speret aut timeat. Postero, ac deinceps aliquot diebus, ad portas maior prope mulierum quam virorum multitudo stetit, aut suorum aliquem aut nuntios de iis opperiens; circumfundebanturque obviis sciscitantes, neque avelli, utique ab notis, priusquam ordine omnia inquisissent, poterant. Inde varios vultus digredientium ab nuntiis cerneres, ut cuique •laeta aut tristia nuntiabantur, gratulantesque aut consolantes redeuntibus domos circumfusos. Feminarum praecipue et gaudia insignia erant et luctus; unam in ipsa porta sospiti filio repente oblatam in complexu eius exspirasse ferunt; alteram, cui mors fui falso nuntiata erat, maestam sedentem domi ad primum conspectum redeuntis filii gaudio nimio exanimatam.

TRADUZIONE
A Roma, al primo annuncio della sconfitta, una enorme folla si riversò nel Foro con grande terrore e tumultuosamente; le donne, vagando per le strade, domandavano a quelli che incontravano notizie sulla inaspettata sconfitta e quale fosse la sorte dell’esercito. E, poiché la turba, a guisa di una affollata riunione, si recava al luogo dei comizi e nella Curia chiamando i magistrati, finalmente non molto prima del tramonto il pretore Pomponio disse: “ Siamo stati vinti in una grande battaglia ” e benché non avessero sentito da lui niente di più preciso, si riempirono l’un l’altro di dicerie, ritornarono a casa dicendo che il console era stato ucciso con gran parte delle truppe, che pochi erano i superstiti e che o vagavano in fuga nell’Etruria o erano stati fatti prigionieri daI nemico. Quanti erano stati i casi del vinto esercito, tanti erano i pensieri preoccupati di coloro i cui parenti avevano militato con il console Flaminio, ignorando quale fosse stata la sorte dei propri; nessuno sicuramente sapeva se sperare o temere. Il giorno dopo, e poi per alcuni giorni ancora, le donne più numerose forse degli uomini, si accalcarono presso le porte, aspettando o qualcuno dei loro o loro notizie; circondavano e interrogavano quelli che arrivavano nè potevano essere strappate, specie dai conoscenti, se pri. ma non avevano chiesto ogni cosa insistentemente ed in ordine. Poi si potevano scorgere le diverse espressioni di coloro che si allontanavano dai messaggeri a seconda se avevano ricevuto notizie liete o tristi e circondavano, mentre tornavano a casa, quelli lieti per rallegrarsi e quelli tristi per consolarli. Soprattutto grandissimi erano il lutto o la gioia delle donne; si dice che una donna sulla stessa porta di casa incontrandosi improvvisamente con il figlio incolume morisse abbracciandolo e che un’altra, alla quale era stata data la falsa notizia della morte del figlio, mentre sedeva mesta in casa, appena lo vide tornare, soccombesse oppresa dalla troppa gioia.

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